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Titolo
Il tramonto dell'Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale

   Descrizione
È difficile trovare, nell'Europa degli anni venti, un'opera storica o filosofica che abbia avuto il peso e l'influenza culturale del "Tramonto dell'Occidente". Immensa costruzione ideologica e mitologica, in cui una grande congerie di dati è ordinata in modo da costituire una struttura ciclica della storia, l'opera di Spengler ebbe una ricezione imprevedibilmente ampia; e il suo autore, da sconosciuto professore di provincia tedesco, divenne quello che si potrebbe dire "un filosofo di successo". L'edizione qui presentata è quella del 1978 (Longanesi), a cui si aggiunge un'introduzione di Stefano Zecchi.

   I vostri commenti

Lorenzo Panizzari (25-05-2012)
Non so se oggi ha solo valore speculativo/storico o anche pratico. Scritto in piena crisi Eu postww1 (1918-22), è influenzato dal nichilismo, alla ricerca di una filosofia della Storia attraverso l'uomo/Stato forte [eroe Carlyle/Michels, autoritarismi], l'antilluminismo, il recupero dei valori classici (religiosi e civili). La teoria è che esistono 8 civiltà principali che danno identità collettive [manca l'idea di svl di soc individualista] destinate a scontrarsi senza inferire [l'antropologia ha dimostrato il contrario], ciascuna poggia su un proprio principio metafisico (relig, ideologia politica) e nasce-cresce-muore come un organismo [neodarwinismo?]: il ciclo di vita dura circa 1000y, quella Eu circa è nata nel 800 e finirà nel 1800 [per caso confonde la crisi tedesca/Weimar con quella del mondo occidentale?]. Precorre molte questioni: il relativismo dei valori, ribalta [giustamente] Von Clausewitz (la guerra precorre la politica), prevede scontro di civiltà [ma Huntington vede inferenze]. Fa spesso affermazioni ragionevoli per il periodo: purificarsi, ritorno a radici sociocult, legame con i valori religiosi, identità dei singoli nel collettivo [cfr Hegel]; ma per la maggior parte mi sembrano asserzioni/generalizzazioni banali e/o irrealistiche (anche per allora). Tra le tante cose discutibili: un eurocentrismo (ed assenza di cfr con altre culture/civiltà) che svaluta tutto il resto; un'analisi scientifica della Storia per definire i criteri [filosof indefiniti] di giusto/sbagliato; il ciclo di vita delle società è temporalmente definito senza cura di relazionarlo alle distanze ed alla loro riduz relativa grazie alla tecnologia. Weber disse che Spengler era un dilettante ingegnoso e colto, e Popper disse che le sue teorie erano futili; credo che questo sia un libro che è quasi doveroso leggere se ci si interessa di Storia e/o Filosofia, ma arrivato alla fine di questa pesante lettura, mi rendo conto che credo più a Weber e Popper che al temuto Tramonto

Riccardo conte43@hotmail.it (09-03-2009)
A volte pedante, a volte sognatore, quasi sempre interessante. Le idee di Spengler emergono da un metodo che cozza contro i canoni della storiografia classica. Spengler non fa lo storico e neanche il filosofo. Non legge i documenti e non ricerca l'essenza delle idee, ma descrive ciò che sente con il cuore. Osteggiato da Croce, il suo pensiero influenzò le correnti politiche che si rifacevano alla destra hegheliana. Non è un'opera filosofica, né storica. E' una descrizione di un modo di concepire il navigare dell'uomo nell'alveo di quel fiume che chiamiamo storia.

simone salandra simo291274@yahoo.it (14-12-2005)
Non bastano certo poche righe per commentare l'opera filosofico-storica maggiore di tutto il novecento.Dentro infatti,per chi sa vedere, vi sono la seconda guerra mondiale, la guerra fredda,gli anni novanta fino all'inizio delle forme, peraltro già incipienti, di civilizzazione e cesarismo odierne.Un'opera illuminante e profetica che avrebbe già dovuto essere un classico e che mette in luce anche i risvolti più nascosti di questi nostri tempi tardi.

http://www.ibs.it/code/9788877465948/spengler-oswald/tramonto-dell-occidente.html
OSWALD SPENGLER
A cura di Diego Fusaro

"Una cultura nasce nell'attimo in cui una grande anima si desta dallo stato psichico originario dell'eternità eternamente fanciulla e se ne distacca, come una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato e di perituro dall'illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una cultura perisce quando quest'anima ha realizzato l'intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, ritornando quindi nel grembo della spiritualità originaria. " (Il tramonto dell'Occidente)

L'antitesi ipotizzata da Dilthey tra "spiegazione naturale" e "comprensione storica" si traduce in Oswald Spengler (1880-1936) nella contrapposizione tra "mondo come natura" e "mondo come storia". Spengler non fu tanto un filosofo nel senso rigoroso del termine, quanto piuttosto un ideologo, indubbiamente capace di cogliere certi orientamenti politico-spirituali del suo tempo, ma troppo proclive a sbrigative liquidazioni di determinati princìpi e valori (la libertà, la democrazia) e ad avventati appoggi agli orientamenti razzistici e totalitari approdati ad ultimo al nazismo. Egli, oltre ad altri scritti tra cui è bene ricordare Prussianesimo e socialismo (1919) e L'uomo e la tecnica (1931), è l'autore di una fortunata opera, Il tramonto dell'Occidente , pubblicata tra il 1918 e il 1922, cioè tra gli ultimi mesi della prima guerra mondiale e l'immediato dopoguerra, in un periodo in cui comincia ad accentuarsi (fino a diventare un elemento rilevante della cultura fra le due guerre mondiali) la consapevolezza di vivere in un periodo di crisi. Crisi sociale, economica e politica, in primis, ma anche crisi intellettuale e di valori, insomma delle certezze che l'inizio del secolo aveva ereditato dall'ottimismo ottocentesco (che con il Positivismo aveva raggiunto l'apice): " quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il 'tramonto dell'antichità', mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il 'tramonto dell'Occidente' ". L'opera di Spengler è emblematica già dal titolo: la crisi e il crollo della Germania vengono interpretati come il tramonto dell'intera civiltà occidentale; in un quadro concettuale che riprende temi della speculazione di Goethe e di Nietzsche, Spengler tenta di rispondere alla domanda pressante sul destino della civiltà europea. Respingendo ogni concezione unitaria dello sviluppo storico, egli afferma la necessità di intendere la storia dell'umanità come esplicazione di una molteplicità di forme differenti, cioè di diverse civiltà dotate ciascuna di una propria vita e di un proprio sviluppo autonomo. Ogni civiltà è un organismo appartenente alla medesima specie e ha quindi una nascita, una crescita, una decadenza e una morte; e come in tutti gli organismi biologici questo ciclo di sviluppo ha il carattere della ineluttabilità, risultando necessariamente determinato dal corredo di possibilità di cui dispone all'inizio del suo sviluppo. Questo è il fondamento di ciò che Spengler chiama " logica organica della storia " , che ha il suo principio nella necessità del destino; e dal dominio della categoria della necessità deriva anche il carattere della risposta che egli dà al problema del futuro della civiltà occidentale. Esso può essere previsto in maniera esatta perché la civiltà occidentale seguirà lo stesso cammino di tutte le altre: " a noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l'altra. Noi ci troviamo invece di fronte all'alternativa di fare il necessario e di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato, o col concorso dei singoli o ad onta di essi ". Spengler va quindi in cerca dei sintomi della decadenza dell'Occidente nell'analisi dei fenomeni economici e politici del mondo a lui contemporaneo, e li scorge nell'affermazione della borghesia, nel primato dell'economia sulla politica, nella democrazia, nella crisi dei princìpi religiosi e nella libertà di pensiero: " non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come libertà ". Se il ciclo evolutivo è lo stesso per tutte le civiltà, è tuttavia diverso il loro corredo di possibilità. Spengler sviluppa qui, in senso radicalmente relativistico , la dottrina di Dilthey dell'autocentralità delle epoche storiche: ogni civiltà rappresenta un mondo a sé, con un proprio linguaggio formale, un proprio simbolismo, una propria concezione della natura e della storia. E' quindi possibile una comprensione effettiva solo nell'ambito di una stessa civiltà, che funge da orizzonte primario e intrascendibile; tra le civiltà non è possibile nessuna comunicazione, dal momento che ogni civiltà crea i propri valori e che tra di esse non vi sono valori comuni. Con l'opera di Spengler, lo storicismo tedesco dell'epoca approdava al relativismo: questo esito, già del resto implicito in Dilthey, spingerà verso tentativi di restaurazione dei valori che ne garantiscano la validità al di là delle singole epoche e culture. Non solo non può esistere una filosofia o una morale di tipo universale-assoluto, ma nessun principio teorico o pratico può pretendere di avere una validità non particolare e non contingente. Spengler riprende e irrigidisce il dualismo natura/storia : la natura è il regno dell'inerte e del "divenuto" , della cieca necessità causale e dell'anonima uniformità esprimibile nelle formule della scienza. La storia è, invece, il regno della vita e del vitale "divenire", dell'intelligente necessità organica e delle particolarità individuali e irripetibili. Protagonista della storia non è tanto l'uomo, quanto la "cultura": riprendendo (ma in modo per più versi unilaterale) un motivo dapprima caratteristico del Romanticismo, e poi da certi studiosi di fine Ottocento (ad esempio Burkhardt), Spengler interpreta la cultura come organismo . Ogni cultura/organismo ha una sua forma peculiare che ne caratterizza tutti gli aspetti costitutivi e che la distingue poi da tutte le altre. Essa ha inoltre una sua nascita, un suo sviluppo secondo un destino necessario e un non meno necessario tramonto. Tale tramonto si realizza appunto quando tutte le sue potenzialità si sono realizzate e a ciò segue un inesorabile processo di decadenza. I momenti estremi di tale vicenda (propria di tutte le culture in quanto tali) vengono indicati da Spengler coi due concetti di "Kultur" e di "Zivilisation": due termini non nuovi (presenti già anche in Kant), ma che Spengler ha contribuito a popolarizzare. La Kultur è la cultura positiva, vitale, non priva di una sana barbarie; la Zivilisation (di cui non deve sfuggire la provenienza lessicale straniera) è invece la cultura raffinata ed estenuata della decadenza internazionale malata e votata alla consunzione. Per Spengler l'Occidente è oramai giunto alla Zivilisation e, dunque, alle soglie del suo inevitabile tramonto. L'unica speranza che si apre a questo punto è quella di un radicale sovvertimento di tutti gli pseudo-valori dell'epoca o dell'intero sistema socio-politico, in grado di ricondurre l'Occidente a un rinnovato stato primitivo.

http://www.filosofico.net/spengler.htm
Il Tramonto dell'Occidente
   di Martin Ibarra *

"L’uomo chiamò la sua donna con il nome di Eva, perché è la madre di tutta l’umanità. Allora Dio, il Signore, fece per Adamo e la sua donna tuniche di pelle, e li vestì. Poi Dio, il Signore, disse: «Ecco, l’uomo è diventato come un dio che ha la conoscenza di tutto. Ora bisogna proibirgli di raggiungere anche l’albero della vita: non ne mangerà e così non vivrà per sempre». Dio, il Signore, scacciò via l’uomo dal giardino dell’Eden e lo mandò a lavorare la terra dalla quale era stato tratto. Così egli scacciò l’uomo e collocò cherubini di sentinella ad oriente del giardino dell’Eden con una spada infiammata e scintillante: dovevano impedire l’accesso all’albero della vita." (Genesi 3: 20-24)

   "Il tramonto dell’Occidente" è il titolo di un’opera di Osvald Splenger che fece epoca all’inizio del ventesimo secolo, da allora si parla sempre dell’Occidente "in crisi", al tramonto, in perenne conflitto con se stesso e con altre culture e civiltà. Martin Heidegger e Karl Jaspers ritornarono sull’argomento in occasione dell’esaurimento apparente della proposta del liberalismo e della democrazia, in due contesti diversi, come è risaputo Heidegger alla fine degli anni trenta aderì al nazismo, Jaspers invece dopo la seconda guerra mondiale sottolineò la crisi dell’occidente sconvolto appunto dalla guerra.
   In Italia abbiamo alla fine degli anni ottanta una riproposizione delle stesse idee da parte di Umberto Galimberti sotto le spoglie di una riflessione sul secondo Heidegger e la metafisica di Jaspers: un vano tentativo di raggiungere una spiegazione di questa sensazione di tramonto perenne in cui viviamo da quasi sempre.
   Vorrei richiamare l’attenzione su questo tema del tramonto dell’Occidente partendo dal testo "egli scacciò l’uomo…ad oriente del giardino dell’Eden".
    Occidente è per i popoli antichi la terra dell’orizzonte, il luogo dove il giorno si conclude. Se l’uomo è scacciato ad oriente di Eden, Eden rimarrà per sempre la terra occidentale o del tramonto, del sogno irraggiungibile. In fondo Colombo è alla ricerca del Graal, la terra ad Occidente è la terra di Master Giovanni, il luogo perso del mito iniziale della terra promessa dell’armonia fra l’essere umano e Dio è il cosmo, dove il mondo è guarito dal male e purgato dalla sofferenza.
   Per i greci la terra di Occidente era un paese che viveva sempre la sera, un perpetuo tramonto, dove Ercole trova Atlante il Titano che porta sulle spalle il peso della volta celeste. Così la pensavano anche i latini, infatti Occidente viene dal latino "occasum" che significa letteralmente "paese della sera", appunto il luogo dove si pone il sole, che riceve soltanto la luce spettrale della sera continua, il Giardino delle Speride dove crescono i pomi d’oro. Notare dunque il gioco di parole inserito nel titolo del libro di Spengler: l’Occidente, la terra della sera, vive ora il suo occaso o tramonto.
   Così l’espressione che analizziamo equivale a quella della crisi dell’Occidente. Ma vedere come pure nei miti inaugurali della nostra civiltà, ebrei e greci già pongono il tramonto come il luogo di realizzazione del mito stesso. Paradosso dei paradossi, il luogo della salvezza è il paese del tramonto.
   Quali sono le ragioni della crisi o tramonto dell’Occidente? La prima fu proposta da Heidegger. Per lui la dimenticanza dell’essere ha determinato la prevalenza dell’ente, delle cose, cioè l’Occidente è al tramonto perché ha privilegiato le cose, la quantificazione, le scienze sperimentali sulle scienze umane.
   L’essere umano è per definizione "un progetto" sempre da concludere, frustrato appunto dalla morte, l’occaso. L’essere umano non può raggiungere mai lo scopo del suo essere perché alla fine del suo percorso trova non la realizzazione del suo essere ma la negazione stessa dell’essere che è la morte. Anche le proposte di raggiungere il paradiso realizzate nel recente passato, non ci hanno affatto portati al paradiso ma all’incubo dei lager, dell’alienazione o del mercato globale. Gli arcangeli e la spada fiammeggiante bloccano tuttora i nostri tentativi di ritornare ad "occidente" della terra di Nun.
   Eric Fromm disse la stessa cosa quando parlava della prevalenza dell’avere sull’essere, la nostra cultura ha privilegiato l’economia, la produzione, la quantificazione, tradendo in questo modo la natura stessa dell’essere umano che è dialogica, cerca la relazione e la realizzazione nel suo essere interiore in relazione con altri.
   Il testo biblico ci suggerisce un’altra risposta. La terra all’Est di Eden, dove vive l’essere umano, è la terra senza Dio o il luogo della dimenticanza di Dio.
   Dio è a Occidente mentre l’uomo è ad Oriente, la crisi o il tramonto dell’Occidente dipende da due fattori nel nostro testo: dall’allontanamento di Dio (questo è il significato della parola peccato: allontanamento da Dio), e dalla dimenticanza di Dio.
    L’uomo non ha voluto "essere con Dio", ma ha preferito essere come Dio. La deificazione di se stessi porta come conseguenza la "codificazione" di tutto il resto, tutto quello che non sono io è cosa, oggetto, strumento da usare a mio piacimento.
    Proprio quando l’uomo scopre di essere "come Dio" si ritrova nella incapacità di gestire questa conoscenza, si ritrova solo e nudo, abbandonato e ormai inerme, con la conoscenza sì del tramonto del suo essere (e la morte giungerà in fretta), ma nell’impossibilità di porre rimedio a questa immensa incapacità di reggere lo sconforto dell’essere creatura nuda ed esposta all’intemperie di una terra senza Dio.
   Così scopriamo l’etica del tramonto di Occidente, o meglio la non etica del nostro tempo perché la caratteristica dell’occasum della morale è la non accettazione delle regole.
   Non si accetta il principio dell’etica, che c’è un limite posto al nostro agire ("non mangerai il frutto dell’albero posto al centro del giardino").
   Se l’uomo vive a Occidente, cioè in Eden, non ha bisogno di luce perché Dio stesso e il suo comandamento sono la luce e la salvaguardia dell’uomo, la sua protezione.
   L’etica non è l’insieme dei comandamenti che limitano la libertà, ma le regole che impediscono il ritorno alla giungla, al paese che perde la luce e che dunque entra nel tramonto per scomparire.
   Oggi invece vige l’unica regola che è la precedenza assoluta del "voglio", la regola del piacere. Non che in altre epoche non ci sia stato questo edonismo come base delle scelte, ma esso era limitato e circoscritto. Oggi invece è prevalente.
   La minaccia nascosta nel "volere" prevalente sull’essere è appunto la perdita di sé, in cui alla fine l’altro essere umano diventa a sua volta "cosa", strumento e non fine. La dissoluzione dell’etica nel "voglio dunque sono" attuale implica la scomparsa dell’altro e la prevalenza assoluta, incondizionata del soggetto.
   Non si è più come Dio, ma si è Dio, con l’aggravante che il mio "fiat" non realizza quel che "voglio" ma quello che non voglio, direbbe Paolo, cioè il male anche per me stesso, di cui la crisi ecologica è prova lampante.
   L’etica del tramonto ha oggi due capisaldi: il primo è l’immediatezza della gratificazione, cioè il piacere deve venire come risultato immediato dell’azione. Non si pensa alla gratificazione che viene dopo un lungo sacrificio o tempo di attesa.
   Il secondo è l’istantaneità del risultato, tutto deve avvenire nell’istante stesso in cui lo desideriamo. La tossicodipendenza è l’esempio più comune, ma anche la droga della velocità, del vivere in fretta bruciando le tappe, il non pensare alla vecchiaia. Curiosamente questa velocità impressa alla vita, che brucia le tappe, è caratteristica del nostro tramonto. Oggi i problemi che avevano venti anni fa gli adolescenti di 18 anni li vediamo in bambini di 12 o 13 anni. Questo significa affrettare, appunto, il tramonto della propria vita.
   Per uscire dalla crisi la nostra società deve ritornare a Dio, ad un’etica del rispetto del comandamento che non limita la libertà, ma che protegge l’uomo stesso dalla brama d’onnipotenza, da cui si innesca il tramonto.
   L’idea di Paradiso fu costruita sull’ideale mesopotamico di un uomo che viveva nella steppa desertica. A noi spetta il compito di trasformare il tramonto in un "paradiso", o meglio nella casa dell’essere umano. Realizzabile secondo le "nostre" condizioni di vivibilità, sostenibilità e durata della vita umana sulla terra, secondo le migliori condizioni possibili nel nostro tempo.

*Pastore battista
Maggio 2007
http://www.riformaerisveglio.it/etica/tramonto_occidente.htm
L’intramontabile “tramonto dell’Occidente”
Riproponiamo un articolo apparso su Il Giornale di inizio agosto.
di Maurizio Cabona, da Il Giornale


   Torna in libreria un’opera cruciale del ’900: un saggio profetico che ha influenzato il pensiero contemporaneo. Ecco perché a quasi 90 anni dalla sua uscita, rimane attuale nell’età del capitalismo finanziario globalizzato
   Non tramonta Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, dal 28 agosto di nuovo in libreria dopo più di 15 anni di assenza (Longanesi, pagg. 1.520, euro 50; pref. di Stefano Zecchi). Ideato come romanzo storico, scritto come saggio filosofico, doveva insegnare a pensare per continenti - come facevano inglesi, russi, cinesi, americani e giapponesi - ai tedeschi, se avessero vinto la Grande guerra. Spengler scomparve nel 1936, anno olimpico a Berlino; se ci fosse ancora nel 2008, anno olimpico a Pechino, sorriderebbe di chi umilia l’orgoglio serbo ed è umiliato dal neocesarismo cinese. Il tramonto dell’Occidente non è innocente, come non sono innocenti le Olimpiadi: fu l’apice del pensiero del capitalismo industriale germanico, sfidato dal capitalismo industriale americano, dal capitalismo mercantile britannico, dal capitalismo di Stato sovietico. Nell’egemonia del capitalismo finanziario globalizzato, Il tramonto dell’Occidente è ancora attuale?
   Di padre tedesco, socialdemocratico ed esule negli Stati Uniti dal 1938, lo svizzero Jean-Jacques Langendorf è, come Spengler, un romanziere prestato alla saggistica. Del clima in cui piombò Il tramonto dell’Occidente, dice: «Era una Germania assetata di rivincita: il pessimismo del libro contribuì ad assicurargli un’accoglienza favorevole. Conteneva una grandiosa metafisica della storia, che parla di nascita, apogeo, estinzione delle civiltà. Qui eccelle Spengler, soprattutto filosofo di minacce incombenti: dominazione delle masse, del denaro, della tecnica, esaurimento della democrazia».
   Nell’Italia d’un altro dopoguerra di sconfitta, però di ricostruzione democratica, Il tramonto dell’Occidente, inno a un neocesarismo a quel punto sconfitto, fu tradotto da Julius Evola. A certi neofascisti sembrò la versione imperialistico-cesariana della Rivolta contro il mondo moderno di Evola stesso (1934); invece era la Rivolta a echeggiare il Tramonto in chiave nostalgico-aristocratica.
   Storico delle idee e diplomatico, Maurizio Serra radiografa la recezione italiana di Spengler: «Non è abbastanza filonazista per essere idolatrato a sinistra come Schmitt e Heidegger; non scrive abbastanza bene per essere incomprensibile, né abbastanza male per esser ristampato spesso; non crede che l’Occidente si salverà dal tramonto, imbracciando il fucile dopo ogni choc, tipo 11 settembre. Chiedere a Spengler la ricetta per la crisi dell’uomo moderno è come chiedere a Henry Miller come conquistare la compagna di scuola. Spengler fissa una direzione dove abbiamo paura perfino di buttare l’occhio». Come dir meglio?
   Negli articoli de La città futura e de L’ordine nuovo, Antonio Gramsci notava, contemporaneamente a Spengler, l’ascesa degli Stati Uniti. Firma storica del Manifesto, Nico Perrone insegna storia dell’America; ma prima ha appreso a pensare per continenti accanto a Enrico Mattei, impegnato con l’Eni nella lotta per le materie prime: «Per Spengler - dice Perrone - il primato dell’economia sulla politica è fattore di decadenza. Non si è sbagliato. La sua analisi è piaciuta alla destra del ’900. Forse solo la Chiesa cattolica, e lo dico da laico, ha capito che le diversità del mondo vanno accettate, e così cerca di resistere. Dalle altre parti c’è invece un’arroganza che accelera la conclusione di Spengler».
   Alfiere del giornalismo italiano di grande respiro di cui oggi tanto si sente la mancanza, Piero Ottone è uno spengleriano: «Apprezzo Il tramonto dell’Occidente. Suddivide la storia del mondo in sette grandi civiltà che nascono, crescono, declinano: il nostro periodo attuale corrisponde alla decadenza dell’Impero romano. Cina, India, Africa sono per l’Occidente di oggi ciò che i barbari furono per Roma? Più che antagonisti, questi paesi sono concorrenti e le loro tecniche sono da imitatori, non da ideatori. E Spengler ne L’uomo e la macchina avverte che è pericoloso insegnare le tecniche».
   Anche Gennaro Malgieri è giornalista; diventato parlamentare e consigliere d’amministrazione della Rai, dopo aver prefato Anni decisivi di Spengler (Ciarrapico), sintetizza: «Il tramonto è attuale perché l’Occidente è infedele a suoi valori e incapace di proporne di nuovi, colonizzato com’è da etiche, costumi e tradizioni estranee».
   Luca Barbareschi è invece fra i rari attori, diventati parlamentari, a chiedersi, spenglerianamente: «Hanno un destino le civiltà? Forse sì. Gli italiani credevano le loro posizioni acquisite per sempre, senza capire che decadenza non è sacrificarsi, come si sacrificavano i genitori, ma è credere che qualcosa ti tocchi di diritto. Cinesi e indiani conquisteranno la nostra condizione di oggi, lasciandoci la loro di ieri».
   Per il filosofo e sociologo francese Alain de Benoist, «Il tramonto dell’Occidente è uno dei libri più importanti del XX secolo. Tanto citato e poco letto, ha due messaggi: che il mondo mai è stato e mai sarà unificato, perché la Terra avrà sempre una pluralità di culture; che queste culture sono grandi organismi, che nascono, crescono, invecchiano e muoiono. La stessa civiltà occidentale va verso la fine. Visione tragica e pessimista, controcorrente rispetto a ogni “progresso”, che ha più possibilità di verificarsi che quelle di Huntington o Fukuyama».
   Ma il diplomatico e storico Sergio Romano diffida: «Spengler fu un filosofo della storia, cioè un mediocre filosofo e un cattivo storico. Ma anche un filosofo della storia può essere uno scrittore affascinante. Leggere Il tramonto dell’Occidente come una chiave per aprire la porta del futuro dell’umanità, è una perdita di tempo. Leggerlo come segno del malessere europeo fra vigilia della Grande guerra e nazismo è una straordinaria esperienza letteraria».
   Per il filosofo Emanuele Severino «Il tramonto dell’Occidente è tutt’altro che inattuale. È sovraccarico però di biologismo pseudoscientifico e ciò insospettisce i filosofi e gli scienziati. Ma se ne deve tener egualmente conto, fosse anche solo per prenderne le distanze. C’è il tramonto, ma i suoi motivi non sono quelli che dice Spengler, incapace di discutere il senso profondo della volontà di potenza».
   Sindaco di Roma, città-simbolo di una delle civiltà evocate da Spengler, Gianni Alemanno considera invece Il tramonto dell’Occidente «una delle opere più importanti del “pensiero della crisi”, affermatosi in Europa dopo la fine della Grande guerra, ma le intuizioni spengleriane sul dominio della Tecnica e l’eclissi dei valori spirituali sono attuali. La civiltà occidentale si diffonde su scala planetaria, ma il suo sistema di valori è debole. E il concetto di “crisi dell’Occidente” è la chiave per interpretare il messaggio di Benedetto XVI».
   Un regista che da Mosca, la “Terza Roma”, è passato a Hollywood, la “seconda Cartagine”, Andrei Konchalovsky, cita un altro Papa: «Il pensiero europeo reca i segni della crisi, sfociata ovunque in grossi scandali economici. Ai popoli mancano punti di riferimento, il denaro conta più della morale. Per Giovanni Paolo II, il secolo XX ebbe la dittatura politica e il XXI avrà la dittatura economica. Di tale crisi Spengler colse la radice nell’eurocentrismo. L’ignoranza prosegue in America nella politica di Bush e in Europa con l’illusione del tribunale dell’Aia di giudicare altri popoli».
   Lettore de Il tramonto quando il libro circolava solo in tedesco, Alberto Pasolini Zanelli tiene l’America sott’occhio per Il Giornale. Ora ci racconta che «per le strade di Washington è ricomparso lo slogan che molti avevano incollato sui paraurti nel 1973 della crisi petrolifera: “Spengler era un ottimista”».

http://www.azionetradizionale.com/2008/08/26/l%E2%80%99intramontabile-tramonto-dell%E2%80%99occidente/
Best of the West
Il tramonto dell'Occidente? Che bluff...
di Roberto Santoro       20 Ottobre 2010

   Smetterla di pensare solo all'Islam vuol dire sottrarsi a una delle grandi narrazioni della paura di questo inizio secolo, come la fine del capitalismo, la catastrofe ambientale, l'esaurimento dei combustibili fossili, un nuovo paganesimo capace di travolgere la Cristianità. Neanche Spengler avrebbe mai toccato le vette di autolesionismo raggiunte dai nuovi cantori del "tramonto dell'Occidente": ogni volta sembra che la nostra civiltà debba sparire e invece continua a progredire.
   Cent'anni fa le grandi potenze controllavano tre quarti delle terre emerse, ma quello era il colonialismo, l’espressione faustiana della potenza occidentale, sangue, guerre, rapina delle risorse mondiali e milioni di vite umane sacrificate. Poi ci sono stati due conflitti mondiali, fascismo, comunismo, un pantheon poco edificante capace di far breccia ad altre latitudini. Ma che l’America è rimasta quel che era, il mondo atlantico non ha ceduto alla tentazione totalitaria, le democrazie europee dopo la dittatura sono resuscitate assicurando libertà e benessere ai popoli diretti sulla strada della globalizzazione. In futuro dovremo riconoscere con meno esitazione i nostri limiti: credenze e pregiudizi duri a morire come la fiducia quasi religiosa nel consumo, la dipendenza dalle materie prime e dal petrolio, una società sempre più mediatizzata e virtuale ai confini del Luna Park. Prima di togliersi la vita, lo scrittore americano David Foster Wallace ha raccontato i mali oscuri del nostro tempo. Andrebbe riletto per scansare facili entusiasmi.
   Eppure le democrazie occidentali conservano dei valori indissolubili e spendibili nei futuri assetti internazionali. Un'economia basata sul libero mercato, rappresentanti eletti dal popolo in liberi parlamenti, una società civile capace di mettere dei paletti al potere, un sistema giudiziario indipendente. La domanda è se nei prossimi decenni riusciremo a sostenere la pressione congiunta delle "nuove grandi potenze", Cina, India, Russia, Brasile, oppure il mondo acquisterà equilibri diversi da quelli che conosciamo, incrinando l’egemonia occidentale più di quanto non lo sia già. L'Europa può resistere a questi concorrenti completando il processo di unificazione politico, economico, militare, culturale, iniziato dopo la Seconda Guerra mondiale, ma l’Occidente corre davvero il rischio di finire al traino dei giganti asiatici?
   Se guardiamo come vengono descritte le “nuove potenze” risuona l’eco di esagerazioni storiche da cui stiamo appena uscendo convalescenti. I bestseller di (fanta?)economia raccontano una Cina senza rivali ma quanto c'è di libero mercato e quanto di iniezione statale nell'economia della Repubblica popolare? Pechino soffre di sovrapproduzione, la domanda interna e i consumi non reggono al decollo, i mercati occidentali rappresentano uno sbocco obbligato per il Celeste Impero. Le politiche di controllo delle nascite vorrebbero ridimensionare la crescita demografica ma offrono soluzioni aberranti come "l'aborto selettivo" sulla base del sesso del nascituro. La mancanza di libertà sta diventando insopportabile, come ha dimostrato il premio Nobel per la Pace a Lin Xiaobo. La scomposizione e la ricomposizione etnica e culturale di un Paese così grande da essere ancora diviso da barriere linguistiche faranno il resto. Le nuove potenze potrebbero sgretolarsi dall'interno.
   L'India è molto più vicina all'Occidente di quanto non lo sia la Cina – dal punto di vista democratico, imprenditoriale – e sarà l'alleato chiave degli Stati Uniti in Asia. Solo che anche Delhi deve e dovrà vedersela con tassi di povertà e condizioni di vita disperate della popolazione, problemi di lungo periodo che covano sotto il vulcano con un impatto potenzialmente esplosivo sulla stabilità del Paese. Quella indiana è una civiltà culturalmente e spiritualmente diversa dalla nostra ma si sta occidentalizzando sotto tanti punti di vista, com’è accaduto al Giappone o alle (ex) "Tigri asiatiche" che non appartenevano alla storia occidentale ma ne hanno preso il modello politico ed economico sviluppandolo in modo originale sulla base delle proprie radici e tradizioni storiche. Lo stesso fenomeno interessa il Brasile e altri stati del Sudamerica e rende l'America Latina il miglior candidato a diventate la "terza gamba" dell’Occidente dopo l’Europa e il Nord-Atlantico (e Israele, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Sudafrica…). Nel mondo islamico l'esperimento si chiama Iraq, la democrazia uscita dalla guerra di liberazione contro il regime di Saddam Hussein. La Turchia di Erdogan a sua volta sta facendo i conti con la divisione fra stato e chiesa, un passaggio che se fosse assolto potrebbe riavvicinare Ankara a Bruxelles.
   E infine come si fa a credere che la Russia di oggi sia paragonabile alla vecchia Unione Sovietica? Allora il mondo era diviso in sfere di influenze, dopo la caduta del comunismo invece c’è stato spazio per un'unica superpotenza – gli Stati Uniti. Quello fu uno scontro di dimensioni epiche e globali che per decenni ha tenuto l'Europa con il fiato sospeso per un blitz dell'Armata Rossa, oggi la battaglia si gioca nel "cortile di casa" russo come ha dimostrato la guerra in Georgia nel 2008. Bene che vada i successori di Putin potranno ergersi a custodi dell'Ortodossia e preservare l'intangibilità delle frontiere ma difficilmente Mosca otterrà di più. Il Cremlino ha rimesso prepotentemente piede nell'economia ma è un vantaggio che si regge sulle megaconcentrazioni come Gazprom e rischia di generare delle crisi con effetti distruttivi sulla società russa. Se aggiungiamo il cesarismo, le pulsioni illiberali e a sfondo etnico, una divisione quasi feudale della società, il quadro clinico di Mosca assume contorni funebri.
   L'America ha retto al colpo dell'11 Settembre affrontando due guerre e lo sfascio economico. Gran parte della responsabilità di quel che un domani sarà la civiltà occidentale dipende dalle scelte che vengono prese a Washington. E' il caso della Polonia. La caduta del comunismo nei Paesi dell'Europa Orientale ha rappresentato un momento decisivo di quella Rivoluzione liberale partita in Spagna e Portogallo alla metà degli anni Settanta, "esportata" in America Latina e sancita dalla triade Reagan-Thatcher-Giovanni Paolo II. Qui nasce la democrazia polacca, un Paese giovane, fiducioso della globalizzazione, che cresce più di molti altri partner europei. Varsavia, per inciso, è anche un esempio di cosa significa "radici cristiane" del mondo occidentale. Peccato che il Presidente Obama abbia tradito le aspettative dei polacchi scendendo a patti con Mosca sul disarmo e lo scudo spaziale.

Commenti
Anonimo - 21/10/10 07:06 l'Occidente al tramonto?
   l'Autore mi sembra aver portato le sue ipotesi ad un elevato livello di astrazione e come ben è noto più è alto tale livello meno si vedono i pericoli che stanno minando il modello./ vedasi -comunismo ed ora anche il liberalismo "globale" che è quasi certamente un'aspirazione che ha più svantaggi che vantaggi per le popolazioni dell'Occidente sicchè si può ben dire cha il loro benessere è al tramionto. In questo caso il livello d'astrazione coincide con la realtà osservabile. Santoro ci rifletta un po'. fgl

http://www.loccidentale.it/node/97402
L’intramontabile "tramonto dell’Occidente"
Torna in libreria un’opera cruciale del ’900: un saggio profetico che ha influenzato il pensiero contemporaneo. Ecco perché a quasi 90 anni dalla sua uscita, rimane attuale nell’età del capitalismo finanziario globalizzato
Maurizio Cabona - Lun, 04/08/2008 - 08:36

   Non tramonta Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, dal 28 agosto di nuovo in libreria dopo più di 15 anni di assenza (Longanesi, pagg. 1.520, euro 50; pref. di Stefano Zecchi). Ideato come romanzo storico, scritto come saggio filosofico, doveva insegnare a pensare per continenti - come facevano inglesi, russi, cinesi, americani e giapponesi - ai tedeschi, se avessero vinto la Grande guerra. Spengler scomparve nel 1936, anno olimpico a Berlino; se ci fosse ancora nel 2008, anno olimpico a Pechino, sorriderebbe di chi umilia l’orgoglio serbo ed è umiliato dal neocesarismo cinese. Il tramonto dell’Occidente non è innocente, come non sono innocenti le Olimpiadi: fu l’apice del pensiero del capitalismo industriale germanico, sfidato dal capitalismo industriale americano, dal capitalismo mercantile britannico, dal capitalismo di Stato sovietico.

Nell’egemonia del capitalismo finanziario globalizzato, Il tramonto dell’Occidente è ancora attuale?
   Di padre tedesco, socialdemocratico ed esule negli Stati Uniti dal 1938, lo svizzero Jean-Jacques Langendorf è, come Spengler, un romanziere prestato alla saggistica. Del clima in cui piombò Il tramonto dell’Occidente, dice: «Era una Germania assetata di rivincita: il pessimismo del libro contribuì ad assicurargli un’accoglienza favorevole. Conteneva una grandiosa metafisica della storia, che parla di nascita, apogeo, estinzione delle civiltà. Qui eccelle Spengler, soprattutto filosofo di minacce incombenti: dominazione delle masse, del denaro, della tecnica, esaurimento della democrazia».
   Nell’Italia d’un altro dopoguerra di sconfitta, però di ricostruzione democratica, Il tramonto dell’Occidente, inno a un neocesarismo a quel punto sconfitto, fu tradotto da Julius Evola. A certi neofascisti sembrò la versione imperialistico-cesariana della Rivolta contro il mondo moderno di Evola stesso (1934); invece era la Rivolta a echeggiare il Tramonto in chiave nostalgico-aristocratica.
   Storico delle idee e diplomatico, Maurizio Serra radiografa la recezione italiana di Spengler: «Non è abbastanza filonazista per essere idolatrato a sinistra come Schmitt e Heidegger; non scrive abbastanza bene per essere incomprensibile, né abbastanza male per esser ristampato spesso; non crede che l’Occidente si salverà dal tramonto, imbracciando il fucile dopo ogni choc, tipo 11 settembre. Chiedere a Spengler la ricetta per la crisi dell’uomo moderno è come chiedere a Henry Miller come conquistare la compagna di scuola. Spengler fissa una direzione dove abbiamo paura perfino di buttare l’occhio». Come dir meglio?
   Negli articoli de La città futura e de L’ordine nuovo, Antonio Gramsci notava, contemporaneamente a Spengler, l’ascesa degli Stati Uniti. Firma storica del Manifesto, Nico Perrone insegna storia dell’America; ma prima ha appreso a pensare per continenti accanto a Enrico Mattei, impegnato con l’Eni nella lotta per le materie prime: «Per Spengler - dice Perrone - il primato dell’economia sulla politica è fattore di decadenza. Non si è sbagliato. La sua analisi è piaciuta alla destra del ’900. Forse solo la Chiesa cattolica, e lo dico da laico, ha capito che le diversità del mondo vanno accettate, e così cerca di resistere. Dalle altre parti c’è invece un’arroganza che accelera la conclusione di Spengler».
   Alfiere del giornalismo italiano di grande respiro di cui oggi tanto si sente la mancanza, Piero Ottone è uno spengleriano: «Apprezzo Il tramonto dell’Occidente. Suddivide la storia del mondo in sette grandi civiltà che nascono, crescono, declinano: il nostro periodo attuale corrisponde alla decadenza dell’Impero romano. Cina, India, Africa sono per l’Occidente di oggi ciò che i barbari furono per Roma? Più che antagonisti, questi paesi sono concorrenti e le loro tecniche sono da imitatori, non da ideatori. E Spengler ne L’uomo e la macchina avverte che è pericoloso insegnare le tecniche».
   Anche Gennaro Malgieri è giornalista; diventato parlamentare e consigliere d’amministrazione della Rai, dopo aver prefato Anni decisivi di Spengler (Ciarrapico), sintetizza: «Il tramonto è attuale perché l’Occidente è infedele a suoi valori e incapace di proporne di nuovi, colonizzato com’è da etiche, costumi e tradizioni estranee».
   Luca Barbareschi è invece fra i rari attori, diventati parlamentari, a chiedersi, spenglerianamente: «Hanno un destino le civiltà? Forse sì. Gli italiani credevano le loro posizioni acquisite per sempre, senza capire che decadenza non è sacrificarsi, come si sacrificavano i genitori, ma è credere che qualcosa ti tocchi di diritto. Cinesi e indiani conquisteranno la nostra condizione di oggi, lasciandoci la loro di ieri».
   Per il filosofo e sociologo francese Alain de Benoist, «Il tramonto dell’Occidente è uno dei libri più importanti del XX secolo. Tanto citato e poco letto, ha due messaggi: che il mondo mai è stato e mai sarà unificato, perché la Terra avrà sempre una pluralità di culture; che queste culture sono grandi organismi, che nascono, crescono, invecchiano e muoiono. La stessa civiltà occidentale va verso la fine. Visione tragica e pessimista, controcorrente rispetto a ogni “progresso”, che ha più possibilità di verificarsi che quelle di Huntington o Fukuyama».
   Ma il diplomatico e storico Sergio Romano diffida: «Spengler fu un filosofo della storia, cioè un mediocre filosofo e un cattivo storico. Ma anche un filosofo della storia può essere uno scrittore affascinante. Leggere Il tramonto dell’Occidente come una chiave per aprire la porta del futuro dell’umanità, è una perdita di tempo. Leggerlo come segno del malessere europeo fra vigilia della Grande guerra e nazismo è una straordinaria esperienza letteraria».
   Per il filosofo Emanuele Severino «Il tramonto dell’Occidente è tutt’altro che inattuale. È sovraccarico però di biologismo pseudoscientifico e ciò insospettisce i filosofi e gli scienziati. Ma se ne deve tener egualmente conto, fosse anche solo per prenderne le distanze. C’è il tramonto, ma i suoi motivi non sono quelli che dice Spengler, incapace di discutere il senso profondo della volontà di potenza».
   Sindaco di Roma, città-simbolo di una delle civiltà evocate da Spengler, Gianni Alemanno considera invece Il tramonto dell’Occidente «una delle opere più importanti del “pensiero della crisi”, affermatosi in Europa dopo la fine della Grande guerra, ma le intuizioni spengleriane sul dominio della Tecnica e l’eclissi dei valori spirituali sono attuali. La civiltà occidentale si diffonde su scala planetaria, ma il suo sistema di valori è debole. E il concetto di “crisi dell’Occidente” è la chiave per interpretare il messaggio di Benedetto XVI».
   Un regista che da Mosca, la “Terza Roma”, è passato a Hollywood, la “seconda Cartagine”, Andrei Konchalovsky, cita un altro Papa: «Il pensiero europeo reca i segni della crisi, sfociata ovunque in grossi scandali economici. Ai popoli mancano punti di riferimento, il denaro conta più della morale. Per Giovanni Paolo II, il secolo XX ebbe la dittatura politica e il XXI avrà la dittatura economica. Di tale crisi Spengler colse la radice nell’eurocentrismo. L’ignoranza prosegue in America nella politica di Bush e in Europa con l’illusione del tribunale dell’Aia di giudicare altri popoli».
   Lettore de Il tramonto quando il libro circolava solo in tedesco, Alberto Pasolini Zanelli tiene l’America sott’occhio per Il Giornale. Ora ci racconta che «per le strade di Washington è ricomparso lo slogan che molti avevano incollato sui paraurti nel 1973 della crisi petrolifera: “Spengler era un ottimista”».

http://www.ilgiornale.it/news/l-intramontabile-tramonto-dell-occidente.html